Interventi
Piede
Dott. Francesco Di Caprio
Specialista in ortopedia e traumatologia
Specialista in ortopedia e traumatologia
Chirurgia del piede
L’alluce valgo è una deformità del I dito del piede, per cui il primo metatarso si trova deviato in varismo (verso l’asse mediano del corpo) mentre il primo dito si trova deviato verso l’esterno, cioè verso le altre dita.
Si tratta di una deformità che talvolta può essere congenita, ma il più delle volte risulta essere acquisita, comparendo in pazienti in maggioranza di 40-50 anni, e di sesso femminile.
Fattori predisponenti possono essere il piede piatto, il piede egizio (con primo dito più lungo del secondo), l’utilizzo di scarpe a punta stretta e malattie reumatiche quale l’artrite reumatoide.
L’alluce valgo può essere asintomatico, ma spesso intervengono vari sintomi, come callosità o borsiti dolenti sulla prominenza mediale (che si possono anche ulcerare e infettare). Il secondo dito spesso si deforma ad artiglio. Inoltre l’alluce si ruota internamente e il suo appoggio diventa insufficiente, per cui il carico viene trasferito in maggior misura su secondo metatarso con conseguente metatarsalgia da trasferimento e possibili fratture da stress. Tali sintomi possono essere sfumati, ma possono divenire anche invalidanti.
Il decorso della patologia è imprevedibile, potendosi assistere a una stabilizzazione della deformità ma anche a un suo peggioramento graduale.
Il trattamento è molto semplice, in quanto non esiste cura in grado di guarire la deformità al di fuori dell’intervento chirurgico.
Il trattamento ortesico può essere utile ad alleviare o eliminare i sintomi nelle forme lievi, ma non è comunque in grado di correggere la deformità. Abbiamo due forme di trattamento ortesico: la prima comprende piccoli tutori elasticizzati, feltrature e siliconi che hanno lo scopo di ammortizzare il contatto della calzatura o del terreno sulle prominenze ossee; la seconda consiste nell’uso di plantari con scarico delle teste metatarsali.
Per le forme invalidanti o resistenti alle cure, l’intervento chirurgico consiste in un’osteotomia correttiva del primo metatarso che può essere eseguita con varie tecniche e che richiede un periodo di un mese di scarico dell’avampiede (è possibile deambulare con calzatura apposita) e un periodo di riposo sportivo di almeno 3 mesi. Se associato a un’adeguata riabilitazione post-operatoria l’intervento porta a risultati ottimi nella maggioranza dei casi.
Nel nostro Reparto eseguiamo l’osteotomia attraverso una piccola incisione cutanea (circa 1,5 cm). Riteniamo infatti preferibile questa tecnica per la migliore visione operatoria e per il miglior controllo del gesto chirurgico, con ottimo risultato estetico.
L’alluce rigido è un’alterazione funzionale della prima articolazione metatarso-falangea, che risulta avere una riduzione dell’arco di movimento, in particolare della flessione dorsale. Per questo l’alluce non è in grado di accompagnare il movimento di rullata sull’avampiede e, rimanendo esteso, costringe il piede a supinare, ossia a trasferire il carico sulla parte esterna.
L’alluce rigido è legato più frequentemente a un’artrosi della prima metatarso-falangea, con formazione di osteofiti dorsali che vanno in conflitto durante la flessione dorsale, limitando ulteriormente il movimento. A questo si associa un ispessimento della placca plantare, formata dalla spessa capsula articolare, dai sesamoidi e dai tendini del flessore breve dell’alluce. Tale condizione si può verificare anche nel giovane, solitamente in conseguenza di traumi avvenuti anche anni prima, e che il paziente non sempre ricorda, che abbiano causato una lesione cartilaginea: questa poi si evolve nel tempo portando a una rigidità articolare.
Questa condizione non è facile da riconoscere in quanto spesso l’alluce non è dolente, mentre il paziente si rivolge al medico perla presenza di dolore e callosità sul bordo esterno del piede.
Il trattamento ortesico consiste nell’applicazione di un plantare con barra rigida per le dita o di una scarpa con suola rigida. Esso può portare a una buona risoluzione dei sintomi, ma solitamente per un paziente giovane è difficile accettare un simile vincolo.
L’intervento chirurgico garantisce risultati discreti, anche se di fronte a un’articolazione artrosica è logico aspettarsi dei risultati imperfetti. In caso di artrosi lieve si prediligono gli interventi che risparmiano l’articolazione: tra questi i vari tipi di osteotomia di decompressione (che permettono di correggere contemporaneamente anche eventuali deformità del dito), e l’associazione di release plantare e asportazione degli osteofiti dorsali.
In caso di artrosi grave si può cercare di conservare l’articolarità del dito con un’artroplastica. Un’alternativa più sicura, ma da valutare con attenzione, consiste nel bloccare chirurgicamente l’articolazione in posizione favorevole (artrodesi).
Le protesi di metatarso-falangea attualmente non danno buoni risultati.
La fascite plantare è un’infiammazione della fascia(o aponeurosi) plantare: si tratta di un ventaglio fibroso che si estende dal tubercolo calcaneare (posto sulla parte inferiore del calcagno) fino alle teste metatarsali.
Essa costituisce in pratica la “corda d’arco”, dove l’arco è costituito dalla volta plantare. Risulta intuitivo che un arco plantare accentuato (piede cavo) pone particolarmente in tensione la fascia plantare, predisponendola a infiammarsi. Altre cause di fascite plantare possono essere la ridotta elasticità muscolare o pregressi traumi in regione calcaneare.
L’infiammazione si sviluppa più frequentemente in prossimità dell’inserzione calcaneare, dando come sintomatologia un dolore sulla superficie inferiore del calcagno che da alcuni pazienti viene riferita anche attorno al calcagno.
L’infiammazione cronica può portare nel tempo aduna reazione periostale nella sede di inserzione della fascia, con apposizione di nuovo osso e formazione del cosiddetto sperone (o spina) calcaneare.
La terapia fondamentale consiste nell'utilizzare una calzatura con un leggero tacco: questo pone il piede in leggero equinismo e scarica la fascia, permettendole di sfiammarsi. In alternativa possono essere indossati rialzi calcaneari duri di 10 mm, in entrambe le scarpe.
Le ortesi specifiche per la fascite plantare prevedono un sostegno della volta plantare e uno scarico nella zona del calcagno, e sono plantari tronchi, privi di supporto per le dita.
Tra le terapie sono utili le onde d’urto, che però risultano leggermente dolorose e vanno effettuate al di fuori del periodo di acuzie. In alternativa sono molto utili le infiltrazioni steroidee locali. I farmaci anti-infiammatori solitamente non danno buoni risultati. In ultima ipotesi si può pensare di affrontare un intervento chirurgico di release della fascia plantare, seguito da un periodo di gesso in posizione di talismo.
Il termine “metatarsalgia” significa “dolore ai metatarsi”. I metatarsi sono le cinque ossa lunghe che collegano la mediotarsica alle cinque dita. Essi sono costituiti da una base che si articola con le ossa tarsali, da una diafisi e da una testa che si articola con le dita. La testa metatarsale sulla superficie plantare è ricoperta da un cuscinetto adiposo che permette l’appoggio al terreno: infatti le teste metatarsali, insieme al calcagno, sono tra le strutture del piede su cui si distribuisce la maggior parte del carico corporeo. Il primo metatarso è il più grosso ed è quello che assorbe la maggior parte del carico. Il secondo metatarso è più sottile, ma è lungo ed è il più inclinato in basso, e pertanto ha anch’esso un’importante funzione di carico. Quarto e quinto metatarso sono invece meno importanti dal punto di vista del carico, ma hanno invece una funzione più dinamica, essendo paralleli al terreno e più mobili.
Nel considerare le patologie dei metatarsi è fondamentale tenere a mente la formula metatarsale, ovvero la lunghezza reciproca dei metatarsi, valutabile solo attraverso una radiografia: in alcuni casi il primo metatarso è il più lungo (index plus), mentre in altri lo è il secondo (index minus).
Inoltre è importante la formula digitale, cioè la lunghezza reciproca delle dita: in alcuni casi il primo dito è il più lungo (piede egizio), in altri lo è il secondo (piede greco), in altri ancora le prime dita hanno la stessa lunghezza (piede quadrato). Questo inquadramento è importante in quanto ogni conformazione predispone a un certo tipo di problematica, come vedremo in seguito.
Vanno considerate infine le deformità delle dita, che se deformate ad artiglio non partecipano alla distribuzione dei carichi sull’avampiede e predispongono alla metatarsalgia.
Le metatarsalgie si dividono sommariamente in meccaniche e non meccaniche. Le metatarsalgie non meccaniche sono dovute a varie cause:
- Infiammatorie (malattie reumatiche)
- Infettive (ragadi, verruche plantari)
- Vascolari (diabete, malattia di Frieberg)
- Para-neoplastiche (cheratoma plantare, neuroma di Morton)
Le metatarsalgie meccaniche hanno una classificazione più variegata e complessa, e dipendono dal sovraccarico localizzato su uno o più metatarsi, causato da una problematica propria oppure dall’insufficienza dei metatarsi adiacenti.
- Sovraccarico globale dei metatarsi: è ciò che accade nel piede cavo, dove l’accentuato equinismo dell’avampiede conduce a un alterata distribuzione dei carichi che si concentrano sull’avampiede
- Sovraccarico del primo metatarso: esso si può verificare per condizioni specifiche del primo metatarso (index plus) oppure per insufficienza dei metatarsi adiacenti, che possono essere congenitamente più corti, oppure affetti da esiti di frattura che ne abbiamo alterato l’anatomia. Infine si può verificare in caso di piede cavo antero-interno.
- Sovraccarico dei metatarsi esterni: questa condizione si può verificare per la particolare conformazione anatomica dei metatarsi coinvolti (più spesso il secondo o il terzo), come accade nel piede greco, nella rigidità della seconda cuneo-metatarsale, negli esiti di frattura. Spesso però i metatarsi dolenti sono normali, ma sovraccaricati a casa dell’insufficienza del primo raggio, come accade in caso di index minus o di alluce valgo. Caso a parte è l’alluce rigido, in cui i metatarsi esterni sono sovraccaricati in quanto in assenza di una dorsiflessione sufficiente dell’alluce il paziente è portato a supinare il piede.
- Sovraccarico del quinto metatarso: è una condizione rara, visto che il quinto metatarso è relativamente mobile e parallelo al terreno, e solitamente si associa a quinto dito varo. Il plantare spesso compensa brillantemente il problema, ma non lo risolve, e pertanto si è vincolati al suo utilizzo.
Le terapie anti-infiammatorie hanno un effetto limitato nel tempo, mentre le infiltrazioni locali non sono indicate. La soluzione definitiva è spesso quella chirurgica.
Il neuroma di Morton, altrimenti detto neuroma interdigitale plantare, consiste in un’alterazione di un nervo interdigitale del piede, il quale si inspessisce formando una tumefazione dolente detta neuroma. Questo produce una sintomatologia dolorosa a carico della zona delle teste metatarsali a livello dello spazio intermetatarsale coinvolto, che più spesso è il terzo, più raramente il secondo.
Questo accade per diversi motivi:
- A livello del terzo spazio intermetatarsale il nervo interdigitale è più voluminoso in quanto riceve un ramo comunicante dal nervo plantare laterale
- Il terzo spazio è il più stretto dei quattro
- I primi 3 metatarsi sono più rigidi, mentre IV e V sono più mobili, per cui il terzo spazio, che connette un metatarso rigido a uno piuttosto mobile, è quello maggiormente sottoposto a stress
I sintomi riferiti dal paziente sono variabili, ma spesso rientrano tra i seguenti: metatarsalgia accentuata dalla deambulazione e dalle calzature strette o con il tacco, dolore urente che si irradia alle dita corrispondenti allo spazio coinvolto, intorpidimento delle dita.
La diagnosi è eminentemente clinica, basandosi sull’anamnesi e sull’esame obiettivo del piede. Una radiografia del piede sotto carico serve a escludere che il dolore sia legato ad anomalie ossee. Ecografia e RMN si sono dimostrate inefficaci.
La cura si basa sull’iniezione locale di steroidi, che però non possono essere ripetute, e che non sempre risolvono il problema a lungo termine. La terapia definitiva è l’escissione chirurgica del neuroma.
Il piattismo è una delle deformità più comuni a livello del piede. Essa consiste in una eversione del calcagno che risulta eccessivamente orizzontale; vi è inoltre un’adduzione, flessione e pronazione dell’astragalo, mentre l’avampiede è supinato e abdotto rispetto al retropiede. Questa deformità si accompagna spesso ad anomalie dei tessuti molli, come la retrazione del tendine di Achille e l’insufficienza del tibiale posteriore.
Occorre sapere che nella prima infanzia il bambino sviluppa normalmente un piede piatto, che si mette in evidenza maggiormente intorno all’anno di vita, quando il bambino inizia a camminare. Fino ai 4 anni il piede piatto è la norma. Fanno eccezione i piedi piatti rigidi da sinostosi congenite o il piede talo-valgo-pronato, che è una vera e propria deformità.
Dopo i 4 anni il piede inizia spontaneamente a correggersi, con una tendenza alla normalizzazione che dura fino agli 8 anni. In questi quattro anni è fondamentale l’attività fisica, generalmente ludica, in quanto lo sviluppo muscolare guida la maturazione della struttura ossea. I plantari correttivi sono indicati solo ed esclusivamente in questo lasso di tempo.
Dopo gli 8 anni la deformità tende a stabilizzarsi, tranne nel caso di piede cavo-valgo che avrà ancora tendenza alla correzione spontanea, soprattutto nella femmina.
Occorre però sapere che solo una piccola parte dei piedi piatti sono sintomatici, e che non tutti sono da correggere chirurgicamente. In ogni caso un intervento chirurgico per il piede piatto dell’infanzia si esegue di norma tra i 10 e i 12 anni di età. Le indicazioni chirurgiche per il piede piatto dell’infanzia sono:
- Evolutività
- Intratorsione tibiale con malallineamento rotuleo
- Sintomi invalidanti (il bambino si lamenta solitamente di facile affaticabilità alle gambe)
L’intervento chirurgico consiste in una piccola incisione cutanea localizzata sul seno del tarso, attraverso la quale si inserisce una vite all’interno del calcagno (calcaneo-stop). Questa vite ha la funzione di mantenere il calcagno in una posizione di giusta supinazione, guidando il corretto sviluppo osseo del piede negli ultimi anni di accrescimento.
Dopo questo intervento il bambino dovrà osservare un periodo di riposo di 5 gg, dopo i quali potrà riprendere a camminare in modo graduale. Il dolore scompare progressivamente e la vite rimane in sede generalmente senza essere più avvertita. In caso di disturbi si potrà rimuovere la vite attraverso la stessa piccola incisione cutanea, dopo circa due anni dal primo intervento.
Occorre prestare attenzione ai tessuti molli e in particolare saper riconoscere quando è necessario eseguire un allungaento del tendine di Achille oppure un ritensionamento del tibiale posteriore. In questi casi il trattamento prevede un gesso post-operatorio per 4 settimane. Per questo motivo in questi casi si preferisce intervenire su un piede per volta.
Nell’adulto un piede piatto non trattato può divenire contratto e quindi dolente. Nel tempo la distribuzione anomala dei carichi sul piede può portare a una degenerazione artrosica.
Esistono inoltre casi di piede piatto acquisito in età adulta, per cause diverse come l’insufficienza del tibiale posteriore, l’artrite reumatoide, gli esiti traumatici (fratture calcaneari o della Lisfranc), ecc…
Il trattamento del piede piatto dell’adulto è più complesso, ed è sempre indicato un tentativo non chirurgico. I plantari per l’adulto non hanno funzione di correzione ma soltanto di compenso. Quando il tentativo fallisce bisogna prendere in considerazione la chirurgia.
Nel giovane adulto si può ancora considerare un intervento di calcaneo-stop, ma sempre accompagnato a ritensionamento del tibiale posteriore.
Oltre i 20 anni, nel piede piatto non artrosico si può eseguire un’osteotomia varizzante del calcagno, solitamente associata all’allungamento del tendine di Achille e a un’osteotomia di abbassamento del primo metatarso.
Nel piede piatto artrosico si ottiene la correzione fondendo chirurgicamente le ossa del retropiede, tramite un’artrodesi della sotto-astragalica secondo Grice, oppure una triplice artrodesi.
Il tendine di Achille è una struttura fibrosa che trasmette al calcagno la forza generata dal tricipite surale. È il tendine più grosso e robusto del corpo umano, in quanto soggetto a sollecitazioni molto forti durante il passo, e soprattutto durante la corsa. La forza di reazione del suolo nella fase di appoggio varia da 1,5 a 5 volte il peso corporeo. Considerando questi enormi carichi è chiaro che anche anomalie di piccole dimensioni possono comportare una significativa alterazione nella distribuzione dei carichi al tendine.
La tendinite dell’Achille è un semplice processo infiammatorio del tendine e/o dei tessuti che lo circondano (peritenonio, borsa pre o post-achillea), che è solitamente causata dal sovraccarico sportivo, eventualmente associato a difetti meccanici che possono causare una distribuzione anomala dei carichi (piede cavo, piede piatto, retrazione tendinea, ecc…).
Il tessuto tendineo è però scarsamente vascolarizzato, e pertanto presenta scarse capacità di recupero. Perciò il cronicizzarsi di questa condizione può condurre a processi degenerativi a carico della struttura tendine, che vanno sotto il nome di tendinosi: questa comporta la perdita della normale struttura collaginea, che viene sostituita da tessuto amorfo, con eventuali calcificazioni al suo interno, conducendo alla diminuzione di resistenza del tendine. Il tendine di Achille in questa fase si presenta dolente e aumentato di volume, e rischia di andare incontro a rottura.
La tendinopatia dell’Achille è una patologia ad andamento subdolo, che esordisce gradualmente con dolore, dapprima solo durante gli sforzi maggiori, ma che poi progredisce divenendo costante anche durante la vita quotidiana o a riposo. A causa del suo andamento insidioso l’atleta si rivolge alle cure mediche solo quando i sintomi divengono insistenti, quindi quando il quadro anatomo-patologico è già avanzato, tale da richiedere tempi di guarigione piuttosto lunghi.
La terapia delle tendinopatie dell’Achille è generalmente non chirurgica e può essere medica, fisica o riabilitativa, unitamente all’utilizzo di un rialzo calcaneare per scaricare il tendine. La terapia chirurgica comprende numerose tecniche, che prevedono tempi di recupero comunque lunghi; perciò questa opzione viene riservata ai casi refrattari dopo il fallimento di un protocollo riabilitativo ben condotto per la durata di 6 mesi.
La terapia medica si avvale dei FANS (anti-infiammatori non steroidei), il cui utilizzo suscita però molti interrogativi in quanto sappiamo che la patologia ha un substrato infiammatorio solo nelle fasi iniziali, per cui questi sono in grado di influire sul decorso della patologia soltanto in fase di esordio. I corticosteroidi, utilizzati generalmente per via locale, ottengono un buon effetto anti-infiammatorio ma possono causare un ulteriore indebolimento del tendine.
Negli ultimi anni si sta affermando l’utilizzo dell’ossigeno-ozono terapia: questa consiste in infiltrazioni locali di una miscela gassosa di ossigeno e ozono in grado di stimolare il rilascio di ossigeno dal sangue al tessuto tendineo, favorendone il recupero. Il vantaggio di questa procedura è che si pratica semplicemente in ambulatorio, che non prevede l’uso di farmaci, e che agisce direttamente sulla causa della tendinosi, cioè il lento metabolismo del tendine.
Un’ulteriore opportunità terapeutica viene fornita dalla medicina rigenerativa. Questa prevede delle infiltrazioni con concentrati piastrinici estratti dal sangue del paziente stesso (gel piastrinico o PRP – Platelet Rich Plasma): le piastrine, una volta iniettate, rilasciano dei “fattori di crescita”, ovvero delle molecole in grado di stimolare la rigenerazione dei tessuti.
La terapia fisica consiste nell’utilizzo di laser e ultrasuoni: entrambe queste terapie hanno effetto anti-infiammatorio; inoltre, somministrando calore profondo, stimolano l’apporto sanguigno al tendine, e quindi ne accelerano il recupero.
La terapia riabilitativa consiste nella riduzione dei carichi sportivi, evitando le attività che causano dolore; l’immobilità assoluta è controindicata in quanto è noto che la tensione è importante per indurre una corretta riorganizzazione delle fibre tendinee. L’esercizio di rinforzo eccentrico si è dimostrato superiore a quello concentrico in termini di risultati clinici. Importanti sono gli esercizi di stretching, ma controindicati in fase acuta. Può essere utile la massoterapia. L’uso del ghiaccio locale è indicato subito dopo l’attività fisica.
Il ritorno all’attività sportiva può avvenire nell’arco di 2-4 settimane per i casi acuti (tendinite), mentre se si instaura un processo degenerativo a carico del tendine (tendinosi), sono necessari 4-6 mesi.
La malattia di Haglund è un’apofisite calcaneare, ovvero una patologia inserzionale del tendine di Achille. La tuberosità calcaneare presenta una prominenza ossea appena prossimalmente alla sede di inserzione del tendine, per cui si genera un conflitto tendine-osso, con dolore locale. Spesso la prominenza del calcagno è visibile e palpabile, tale da generare un conflitto con la calzatura, che porta alla formazione di una borsite retro-calcaneare, più frequente sul lato esterno.
La causa di questa prominenza risiede nell’esito di un’apofisite in età di accrescimento: infatti all’età dello sviluppo puberale, lo sviluppo della forza muscolare non è seguito di pari passo da un irrobustimento dell’osso, in quanto l’osso ha ancora delle zone di debolezza legate alla presenza delle cartilagini di accrescimento ancora aperte, come nel caso dell’apofisi calcaneare. Per questo nei punti di inserzione dei tendini più forti, così come all’inserzione dell’Achille, si generano delle microfratture attraverso la cartilagine di accrescimento, cosa che nel tempo porta a un accrescimento osseo aberrante, con formazione della prominenza. Un fattore favorente è il piede cavo, a causa dell’eccessiva tensione a cui il tendine di Achille è sottoposto in questo tipo di conformazione. Anche le attività fisiche ripetitive come la corsa e il calcio, favoriscono lo sviluppo di questa problematica.
La sintomatologia può assumere diversa gravità. Quando i sintomi diventano insistenti si rendono difficili le attività di endurance come la corsa.
Per quanto riguarda la terapia, se il problema prevalente è la borsite si può tentare di proteggere la parte con delle ortesi in silicone o con dei cerotti, per diminuire il conflitto con la calzatura. Negli altri casi si può provare ad affidarsi alle fisioterapie. Le infiltrazioni locali di cortisone possono essere di aiuto, però bisogna considerare l’azione lesiva del cortisone sul tendine, per cui occorre assolutamente limitare il numero di infiltrazioni.
Nella maggior parte dei casi gravi, l’unica soluzione efficace è quella chirurgica, che consiste nell’asportazione della prominenza ossea con regolarizzazione del profilo calcaneare. Si tratta di un intervento semplice, ma da non sottovalutare come impegno per il paziente, in quanto si rischia di indebolire la zona di inserzione del tendine di Achille, per cui dopo l’intervento è necessario un periodo di scarico di 3 settimane, e successivamente la fisioterapia per sfiammare l’inserzione tendinea e recuperare l’elasticità del tendine. Tale intervento può essere eseguito anche per via endoscopica, minimizzando le incisioni chirurgiche, ma dilatando i tempi dell’intervento.