Interventi
Caviglia
Dott. Francesco Di Caprio
Specialista in ortopedia e traumatologia
Specialista in ortopedia e traumatologia
Impingement tibio-astragalico
Definiamo sindrome da impingement una condizione patologica caratterizzata da un conflitto tra due strutture articolari o periarticolari. Tale patologia può determinare incarceramento o compressione di parti molli quali capsula, tessuto sinoviale o ligamentoso. Trattasi di condizione patologica in quanto le strutture ossee o fibrose interessate dalla sindrome da impingement normalmente coesistono in ambiente articolare senza dar luogo a disturbi clinici.
La sindrome da impingement ossea o fibrosa rappresenta la prima causa di artroscopia della tibio-tarsica.
Da un punto di vista epidemiologico possiamo considerare due forme di genesi della sindrome da impingement. Una origina da una patologia traumatica acuta ossea, osteocondrale o capsulo-ligamentosa; l’altra da una patologia cronica causata da microtraumi ripetuti. Entrambe le condizioni riconoscono come fattore scatenante la pratica sportiva. Alcuni sport manifestano il loro potenziale lesivo attraverso i traumi legati alla pratica agonistica (calcio, basket, tennis, ecc.) altri determinano tale condizione attraverso posizioni o posture reiterate nel tempo (danza, ecc.).
Il concetto di sindrome da impingement può essere applicato su varie articolazioni (ginocchio, spalla, caviglia, ecc.). Per ciò che si riferisce alla tibio-tarsica, uno dei primi autori a descrivere un quadro di questo tipo è stato Morris, nel 1943. Quest’autore in realtà descrive un quadro patologico definendolo “athlete’s ankle”. Secondo l’autore, questa condizione determinava una infiammazione con versamento della articolazione tibio-tarsica con tumefazione della porzione articolare anteriore.
Tale quadro veniva ripreso nel 1950 da Mc Murray con la definizione di “footballer’s ankle”. L’autore evidenziava come nella categoria dei calciatori fosse di facile riscontro una condizione clinica caratterizzata radiograficamente da osteofitositibio-astragalica. La causa principale di tale quadro era l’esposizione dell’articolazione a microtraumi ripetuti legati alla pratica del calcio.
O’Donoghue nel 1957 conia per primo il termine di “impingement” tra astragalo e tibia. Anche in questo caso l’autore fa riferimento a un elevato numero di atleti e descrive una condizione di ispessimento dei margini articolari osteocondrali in corrispondenza della superficie anteriore della tibia e la corrispondente superficie del collo dell’astragalo. Tale condizione viene definita “impingementexostoses”.
A seguito di questa definizione, numerosi sono stati gli articoli riguardanti le condizioni di conflitto articolare nella caviglia e il loro relativo trattamento chirurgico. Tutt’oggi possiamo classificare numerose forme di impingement ossee o fibrose che interessano praticamene tutte le porzioni dell’articolazione. Molte di queste situazioni cliniche possono essere diagnosticate e trattate mediante l’artroscopia. Ed è proprio quest'ultima che in alcuni casi ha consentito di evidenziare e meglio definire quadri di impingement intra-articolari altrimenti non classificabili.
La nostra esperienza ci ha portato a definire una classificazione che comprenda tutti i tipi di impingement allo scopo di meglio definire i principi generali di valutazione e di codificare i principi generali di trattamento.
Trattamento delle lesioni osteo-condrali
In presenza di piccole lesioni di basso grado, il semplice debridement - ossia la rimozione dei detriti di tessuto cartilagineo danneggiato - può risultare in grado di ottenere una riduzione della sintomatologia dolorosa.
Si tratta di una tecnica di stimolazione midollare analoga a quella eseguita nel ginocchio, indicata per lesioni croniche di piccole dimensioni.
La procedura prevede una pulizia artroscopica della cartilagine residua fino all'esposizione dell’osso sub-condrale sano: con le punte vengono praticati 3 o 4 fori per centimetro quadrato, raggiungendo una profondità di 3-4 mm.
Tale tecnica permette di richiamare alla superficie articolare le cellule multipotenti contenute nell’osso spongioso. Queste ultine, venute a trovarsi in ambiente articolare, si differenziano in condrociti e producono matrice cartilaginea di tipo fibroso.
Nonostante la fibro-cartilagine riparativa non sia equiparabile alla cartilagine jalina nativa in termini di qualità meccaniche, essa è in grado di sopportare i carichi e di distribuirli convenientemente a livello dell’intera superficie articolare.
Con questa metodica è possibile raggiungere ottimi risultati a distanza di un anno dall’intervento chirurgico, a fronte di un progressivo deterioramento dei risultati clinici con il trascorrere del tempo.
Grazie allo sviluppo dell’ingegneria tissutale è stato recentemente possibile sviluppare tecniche di medicina rigenerativa anche per le lesioni osteo-condrali: il principio è quello di sfruttare le capacità delle cellule di differenziarsi e di replicare, al fine di ricostituire tessuti del tutto analoghi a quelli lesionati.
Trapianto di condrociti autologhi
La tecnica del trapianto di condrociti autologhi è stata in origine sviluppata a partire dagli esperimenti sulle lesioni focali osteo-condrali dei conigli da Grande et al. nel 1989. Essi dimostrarono che, nei difetti in cui era stato effettuato il trapianto, era stata ricostruita una significativa porzione di cartilagine (82%) contrariamente a quanto avvenuto nel gruppo di controllo in cui non era stato eseguito il trapianto (18%). La svolta nell’applicazione del trapianto di condrociti autologhi nel ginocchio umano fu rappresentata dai dati riportati da Brittberg et al. nel 1994. Sulla scia di questi studi, Giannini et al. nel 2001 hanno adeguato la metodica del trapianto di condrociti autologhi alla caviglia, dimostrando la formazione di cartilagine ialina rigenerata a livello del dome talare interessato dalla lesione. Tuttavia la metodica a cielo aperto presentava numerosi inconvenienti, tra i quali la necessità di un’osteotomia malleolare e la sutura di un flap periostale alla cartilagine circostante la lesione trattata. Grazie allo sviluppo di innovativi scaffold biodegradabili, è stato possibile ottenere al termine della fase di laboratorio un costrutto in forma di membrana comprendente al suo interno i condrociti autologhi coltivati. Dopo le brillanti esperienze con questo biomateriale nell’articolazione del ginocchio è stata sviluppata una metodica per l’impianto artroscopico nella caviglia.
Trapianto di cellule staminali midollari
Il trattamento artroscopico delle lesioni osteo-condrali mediante trapianto di condrociti autologhi ha dimostrato di ottenere buoni risultati clinici e istologici, a fonte di una limitata invasività chirurgica. Tuttavia i limiti di questa tecnica sono la necessità di due interventi chirurgici e di un laboratorio attrezzato per la coltura cellulare con relativi costi.
Allo scopo di identificare una popolazione cellulare da utilizzare per la rigenerazione di lesioni condrali o osteo-condrali, anche al fine di ovviare alle tecniche di espansione cellulare, l’attenzione è stata recentemente rivolta alle cellule staminali che possono rigenerare vari tipi di tessuto. Le cellule staminali rappresentano una popolazione presente nella maggior parte dei tessuti adulti. Esse partecipano all’omeostasi del tessuto e sono fondamentali per la vitalità, il mantenimento e la risposta agli insulti esterni. Esse sono la fonte di tutti i tessuti neoformati nei processi riparativi e di rimodellamento, e sono guidate nelle loro attività da molecole segnale che controllano la loro attivazione, proliferazione, migrazione, differenziazione e sopravvivenza. Una caratteristica molto interessante è la multipotenzialità delle cellule staminali, cioè la capacità di differenziarsi virtualmente in qualunque altro tipo di tessuto: le cellule staminali derivate da osso, midollo osseo, muscolo e grasso, hanno dimostrato di potersi differenziare in multipli fenotipi, incluso quello osseo, cartilagineo, tendineo, ligamentoso, adiposo, muscolare e nervoso. Le fonti di cellule staminali per il tessuto muscolo-scheletrico sono molte, e includono il midollo osseo, il periostio, la cartilagine, il muscolo, il grasso e i periciti vascolari. La possibilità di prelievo da questi tessuti è influenzata dalle complicazioni che inevitabilmente la manovra comporta. In particolare l’aspirazione di midollo osseo è associata alla minore morbilità, e permette di ottenere una sospensione cellulare che può essere rapidamente processata, anche intra-operatoriamente per un immediato reimpianto.
Per quanto riguarda i biomateriali disponibili come scaffold per l’impianto e la crescita cellulare ve ne sono innumerevoli, i quali devono rispondere a determinate caratteristiche quali ad esempio porosità, biocompatibilità, biodegradabilità, adesività per le cellule da veicolare. Tra questi la membrana di acido ialuronico, già utilizzata per il trapianto di condrociti autologhi, ha suscitato notevole interesse. Essendo costituito da acido ialuronico, i prodotti di degradazione di questo biomateriale non risultano citotossici, ma sono in grado di svolgere effetti positivi per la crescita e l’attecchimento della componente cellulare trapiantata.
Per quanto riguarda le molecole segnale, quelle principalmente implicate nella differenziazione in senso cartilagineo delle CSM sono TGF-beta e IGF-1. Entrambe sono facilmente reperibili nel gel piastrinico, prodotto con metodo automatizzato a partire da sangue venoso autologo. Numerosi autori hanno dimostrato l’utilità del gel piastrinico nel favorire la replicazione cellulare, la rigenerazione ossea e di numerosi altri tessuti.
Hangody et al. nel 2004 hanno descritto una metodica per il trattamento delle lesioni osteo-condrali dell’astragalo utilizzando numerosi tasselli osteo-cartilaginei autologhi cilindrici, denominati “plugs”. Questi plugs si prelevano dalle zone di non carico mediale o laterale della superficie articolare femorale del ginocchio e si trasferiscono a livello della sede di lesione astragalica, in modo da comporre un “mosaico” che abbia per tessere i vari plugs.
La metodica richiede un accesso artrotomico alla caviglia, a causa della necessità di approccio perpendicolare alla superficie cartilaginea e dello scarso spazio presente a livello della articolazione della tibiotarsica.
Studi bioptici successivi a interventi di mosaicoplastica hanno dimostrato come il sito di impianto conservi le caratteristiche di cartilagine ialina con presenza di fibre collagene tipo 2, ma con tessuto fibro-cartilagineo di interfaccia negli spazi vuoti tra l’impianto e la superficie conservata.
Le dimensioni ideali per il trattamento con mosaicoplasticasono i difetti che vanno da 1 a 4 cm2, e che i limiti di impianto sono dati soprattutto dalla scarsa disponibilità e morbidità del sito donatore.
Il trapianto osteo-condrale costituisce una importante alternativa per il trattamento delle lesioni cartilaginee di medie e grandi dimensioni, permettendo di ripristinare rapidamente e in maniera diretta il piano osteo-condrale con un rivestimento avente caratteristiche morfofunzionali molto simili al normale.
È possibile utilizzare trapianti osteo-condrali congelati o freschi: questi ultimi offrono il vantaggio di preservare maggiormente la vitalità condrocitaria del trapianto.In questi casi il trapianto deve essere utilizzato entro 7-14 giorni dal decesso del donatore, dopo i necessari controlli microbiologici. La tecnica chirurgica consiste nell’escissione della zona di lesione con forma rettangolare e a base piatta e nel posizionamento di un segmento di astragalo da donatore sagomato secondo le medesime misure, stabilizzato con viti.
Lesioni legamentose della caviglia
I traumi distorsivi della caviglia sono uno degli infortuni più frequenti in traumatologia sportiva, e spesso sono correlati a lesioni legamentose di vario grado. I legamenti del comparto esterno sono quelli più frequentemente coinvolti (peroneo-astragalico anteriore 77%, peroneo-calcaneare 2%, peroneo-astragalico posteriore 2%), mentre il deltoideo è coinvolto nel 15% dei casi e la sindesmosi nel 4%.
La classificazione delle lesioni legamentose le divide in 3 gradi:
- Lesione distrattiva senza interruzione delle fibre
- Lesione incompleta
- Lesione completa
Nelle lesioni di grado 1 la caviglia si presenta stabile e il paziente riesce a deambulare senza stampelle. Nelle lesioni di grado 2 la caviglia si presenta tumefatta ma stabile, e il paziente deambula con zoppia. Nelle lesioni di grado 3 la caviglia è tumefatta e instabile e il paziente non tollera il carico.
Qualora la clinica non sia sufficiente a determinare con certezza l’entità della lesione, ci si può avvalere dell’ecografia o delle radiografie sotto stress.
Il trattamento di prima scelta è quello conservativo. In tutti e tre i gradi, per la prima settimana è raccomandabile mantenere l’arto in scarico, applicare ghiaccio e un bendaggio compressivo, come semplificato dall’acronimo RICE (Rest – Ice – Compression – Elevation), per impedire la formazione di eccessivo versamento o tumefazione.
Dopo la prima settimana il trattamento differisce a seconda del grado della lesione:
- Il trattamento è solamente sintomatico, la riabilitazione può essere precoce e il ritorno allo sport è previsto dopo 2-3 settimane.
- Dopo la fase RICE bisogna considerare un periodo di riabilitazione di circa 5 settimane per permettere la cicatrizzazione del legamento e recuperare un adeguato recupero funzionale, muscolare e propriocettivo. Durante il periodo riabilitativo è opportuno proteggere la caviglia con tutori elastici o pneumatici.
- Dopo la fase RICE la caviglia deve essere immobilizzata in gesso o tutore per ulteriori 2 settimane. A seguire è prescritta la fisioterapia, per permettere il recupero sportivo in 3 mesi.
Per quanto riguarda le lesioni acute, data l’elevata percentuale di successo ottenibile con il trattamento incruento, un intervento di riparazione legamentosa primaria è giustificato solo in casi selezionati; eventuali sintomi residui possono essere trattati in un secondo momento con identiche possibilità di successo. Un intervento di riparazione legamentosa primaria può essere giustificato in sportivi di alto livello, che hanno la necessità di recuperare rapidamente e di scongiurare il rischio di un intervento a distanza di tempo. In questo caso una fase artroscopica è utile allo scopo di trattare le lesioni intra-articolari associate, nonché di regolarizzare i monconi del legamento leso, in modo da diminuire il rischio di formazione di tessuto cicatriziale esuberante, e quindi di successivo sviluppo di sindrome da impingement.
Il trattamento conservativo fornisce buoni risultati in circa l’80% dei casi, ma nel restante 20% dei casi si osserva la persistenza di sintomi cronici. Questi possono essere ricondotti a varie cause:
- Instabilità residua. In caso di instabilità cronica, quest'ultima può essere trattata chirurgicamente: in letteratura sono descritte più di 50 tecniche di ricostruzione legamentosa della caviglia; tali tecniche si dividono in anatomiche e non anatomiche. Le tecniche anatomiche prevedono la riparazione diretta del legamento con rinforzo di periostio o legamento anulare del tarso, danno buoni risultati e sono preferibili laddove sia coinvolto un solo legamento. Le tecniche non anatomiche, che utilizzano trapianti di peroneo breve o tendini omologhi, forniscono un’ottima stabilità ma sono gravate da una maggiore incidenza di rigidità post-operatoria; pertanto sono riservate ai casi di recidiva o di instabilità complessa.
- Impingement osteo-fibroso. Le lesioni da impingement possono essere trattate tramite regolarizzazione artroscopica.
- Lesioni osteo-condrali. Le lesioni osteo-condrali necessitano di un trattamento artroscopico o artrotomico, con tecniche di riparazione o di rigenerazione cartilaginea che dipendono dal tipo di lesione.